La curiosità mista all’ottimismo, un mix che reputo esplosivo: si tratta di quell’instancabile macchina che mi fa confrontare col mondo ogni giorno, come fosse una missione insieme a una sfida.
E la buona notizia è che sono felice di essere in ottima compagnia.
Come tempo fa quando, alla ricerca di ispirazione, sono rimasto colpito da una donna che non conoscevo (mea culpa): Annalisa Monfreda. Il suo speech al Ted Talk dovrebbe aiutare a riflettere. Soprattutto, credo che siano tante le cose che ci accomunano, a partire dall’inguaribile ottimismo, la voglia di crescere, di migliorarsi, di esplorare.
Ho contattata Annalisa, è stata sin da subito disponibile per fare 88 chiacchiere. Ecco cosa ne è venuto fuori.
Nel tuo libro “Come se tu non fossi femmina. Appunti per crescere una figlia“, tra le lezioni che passi alle tue figlie e a chi legge, una in particolare mi ha colpito: seguire i desideri e diffidare dei sogni. Non pensi che ci possa essere un nesso, se strutturato e programmato tra i due? Mi spiego meglio: se si diventa consapevoli di quali sono i nostri sogni e li si pianifica su carta, possono diventare desideri da realizzare. Napoleon Hill disse: un obiettivo non è altro che un sogno con una scadenza. Ecco, pensi che con intelligenza questi due ‘mondi’ possano essere messi sullo stesso piano, per portare dei risultati concreti in ciò che si vuole ottenere?
Sì, ecco, se diamo una scadenza ai sogni e ci ricordiamo di aggiornarli, allora possiamo chiamare così i nostri desideri. Io preferisco però questa seconda parola, desiderio, perché implica un movimento attivo, una spinta al raggiungimento, laddove i sogni, quelli classici, ci appagano per il sol fatto di esistere.
Molto spesso nel tuo modo di raccontare all’interno del libro ami lasciare quesiti aperti e non sempre dare risposte. Premesso che il contesto in cui applicare un approccio del genere cambierebbe tutto, secondo te, creare domande per far riflettere è più importante delle risposte stesse che si potrebbero dare?
Sì, fare domande ci permette di costruire conversazioni difficili, interessanti. Che ci fanno fare scoperte anche senza darci risposte certe.
Hai in programma di scrivere altri libri e se sì su quali argomenti?
Sì, sto lavorando a un’inchiesta giornalistica su un tema che non svelo per motivi scaramantici (finire un libro mi sembra sempre un miracolo!)
Un altro argomento caro a entrambi: la forza delle idee. Nel video che mi ha folgorato, al Ted Talk, hai affermato che Il Miglior Curriculum sono le Idee e che le stesse idee sono una merce rarissima. Tantissimi hanno idee, pochi hanno il coraggio di esporle realmente e pochissimi si mettono in azione tutti i giorni per farle diventare realtà. Come incoraggi, sproni, stimoli questo processo, quando ne intravedi il potenziale, che sia sul posto di lavoro, in famiglia o con amici?
Le idee, per essere espresse, hanno bisogno di un ambiente protetto. Un luogo o un consesso di persone in cui ci sentiamo al sicuro. In cui non verremo censurati, derisi, ignorati. Questo non vuol dire creare situazioni in cui tutte le idee vengano necessariamente accolte. Ma per lo meno rispettate. Questo per me significa far passare il messaggio che io ascolterò chiunque abbia da propormi un’idea in redazione e mi occuperò di creare delle situazioni, le riunioni di redazione, in cui tutti abbiano pari diritto di parola e di ascolto. Lo stesso vale a casa e con gli amici.
Quali sono le tre migliori idee che hai avuto nella tua vita? E perché?
Sul lavoro, fatico a trovare una mia idea che sia rimasta veramente tale. Ogni idea si è evoluta e contaminata, fino a smettere di essere mia per divenire idea di tutti. Ed è il miglior modo per far sì che le idee non muoiano. Per esempio quando, 7 anni fa, abbiamo avviato il primo blog di redazione. Oppure quando abbiamo deciso di trasformare un nostro libro in spettacolo teatrale. O quando abbiamo deciso di lanciare un grande movimento legato alla corsa con le nostre lettrici.In famiglia è più semplice individuare le mie idee, perché sono le più pazze, tipo fare l’Interrail nei Paesi dell’Est, con due bambine di 8 e 11 anni.
Credi che in Italia, popolo innovatore e geniale, la creatività sia offuscata in molti ambiti lavorativi da gerarchie quasi indistruttibili, oppure vedi spiragli di apertura al cambiamento?
Per creare c’è bisogno di ordine, di flussi di lavoro impeccabili, di metodo. Altrimenti si spreca troppo tempo nell’ordinario e non ne rimane per il pensiero creativo. Le gerarchie fanno parte di questo ordine, e quindi sono necessarie… se le persone che occupano ruoli di responsabilità non le utilizzano per corazzarsi contro la propria insicurezza. Ma invece si fanno portatori di una leadership che ha come suo principale obiettivo: mettere il proprio team nelle condizioni migliori per creare.
Qualche domanda sull’esperienza, sul lavoro e sul successo. Chiaramente oggi sei una donna di successo. Secondo te, per arrivare a un percorso che genera dei gradi di consapevolezza a cui sei arrivata oggi, è necessario passare dall’esperienza vissuta oppure certe nozioni possono essere fatte nostre senza esser per forza passati attraverso la gavetta?
Forse tu mi ritieni una persona di successo perché dirigo un giornale. Per me successo è sentire di essere nel posto giusto, ovvero quello che mi permetterà di raggiungere il mio scopo, e di avere tutti gli strumenti e le possibilità di perseguire quello scopo. La mia gavetta sono stati i primi anni da direttore. Tutti abbiamo bisogno di una gavetta, anche se il mondo attorno la chiama già “successo”.
Sempre a proposito di esperienza, hai affermato che rompere gli schemi all’interno di una gerarchia con l’ausilio di finestre e che il coraggio di sbagliare, soprattutto in un giovane deve essere una caratteristica che porta alla crescita lavorativa dello stesso. Fino a che punto, però, in redazioni importanti come quelle in cui sei presente o lo sei stata, sono permessi ‘eventuali errori’?
Non sono mai stata crocifissa per i miei errori. E ne ho fatti di grossi. Forse sono stata fortunata. Di sicuro ho aiutato questa fortuna guardando in faccia gli errori, mettendomi in discussione e cambiando rotta. Non è facile. Paradossalmente i miei errori sono stati perdonati meno dal basso che dall’alto. Un gruppo di lavoro stenta ad accettare che un capo sbagli o comunque tende a enfatizzare quell’errore. All’inizio questa cosa mi faceva male: succedeva proprio a me che non stigmatizzavo gli errori di nessuno. Poi ho capito che è un meccanismo di difesa, di autoassoluzione. Un capo lo deve mettere in conto e imparare a conviverci.
Pensi che per chi inizia un percorso di giornalismo e/o informazione lo step dello stagista è fondamentale oppure in qualche maniera si può bypassare?
Penso che sia molto utile. A patto che non si traduca in sfruttamento ma che porti a una vera crescita.
Qual è secondo te l’età minima per dirigere un giornale, se ce n’è una?
Non ce n’è una. E non si può pretendere di imparare a dirigere un giornale prima di essere chiamato a farlo. A qualunque età accada, si apprenderà sul campo.
Quanto è importante fingere di sapere quando non si sanno davvero le cose se si è in una posizione di ‘comando’ in caso non si volesse perdere autorevolezza?
È sbagliatissimo. Io l’ho fatto ai primi tempi, con il risultato di bloccare il mio personale processo di apprendimento, che è una cosa che non si deve fermare mai.
Come procede il processo di separazione di chi produce contenuti per digitale e per il cartaceo? Si tratta di una sfida quotidiana o sei riuscita a trovare un buon equilibrio?
A Donna Moderna abbiamo trovato un buon equilibrio, anche se purtroppo siamo in pochi a credere nell’importanza di avere una redazione unica.
Di recente ho visto una tua foto con la copia appena uscita di Donna Moderna dove, felice, palesavi le difficoltà e l’enorme soddisfazione per aver confezionato prodotto tramite smart working. L’Italia si è dovuta adattare a questa nuova situazione. Come avete affrontato quest’avventura, visto che accennavi al fatto che non eravate del tutto pronti?
Non eravamo affatto pronti, tecnologicamente parlando. Prima ci sono stati i colleghi dell’IT che hanno lavorato giorno e notte, commuovendomi per la loro abnegazione. E poi la redazione, che ha tirato fuori un’energia e una voglia di farcela che sì, potevo aspettarmi conoscendola, ma che mi ha stupito ed emozionato. È stato davvero una prova di quanto sia importante avere una squadra che ama più di tutto il lavoro che fa, e lo considera una missione.
Dunque cosa provi a dirigere una testata come Donna Moderna in una situazione delicata come quella di oggi?
Penso che tutti noi giornalisti abbiamo una responsabilità enorme. Come ho scritto di recente, “dire i fatti non significa dire la verità”. La verità sta nel peso che diamo alle notizie, nell’ordine con cui decidiamo di darle, nel tipo di approfondimenti che cerchiamo di fare. La verità è un obiettivo ambizioso, ma è quello che dobbiamo porci tutti. E devo dire che le lettere di questi giorni da parte dei lettori sono la soddisfazione migliore: ci dicono che li stiamo accompagnando in questo momento difficile con profondità, accuratezza e una buona dose di leggerezza.
Che ruolo hanno gli uomini (se ce ne sono, ma credo di sì) all’interno delle tue redazioni?
Lo stesso delle donne 😉
Ringrazio Annalisa, che chiude con un Sorriso quello che è per me un momento di crescita e condivisione. E no, non la ritengo una donna di successo perché dirige un giornale; la ritengo una donna di successo per come approccia la vita, per la sua meravigliosa visione cuore/pancia/cervello, come si evince dalle risposte alle mie domande. Chapeau.